Il diario ritrovato

Il diario di Damiani  

Dopo quasi 30 anni dalla morte e 90 dalla fine della guerra, il ritrovamento fortuito del diario di guerra di Settimio Damiani ha destato grandi emozioni nei figli del fante marchigiano trasferitosi negli Stati Uniti  e dove vivono tutt’ora i suoi familiari. Un ritrovamento inaspettato, avvenuto a causa dell’allagamento della cantina di uno dei figli, una cantina dove erano state riposte le cose di Settimio dopo la sua morte avvenuta nel 1979. Tra scatole e scatoloni tra le mani del nipote Tim capita un quaderno scritto con la scrittura tipica del nonno ma nessuno in famiglia sa più leggere l’italiano. Purtroppo anche gli anziani del quartiere di Chicago dove vivono, un quartiere popolato da marchigiani tanto da avere un gemellaggio con San Benedetto del Tronto, oramai faticano a leggere la loro lingua originale. La curiosità destata dal ritrovamento non viene certo placata dall’impedimento, anzi, lo alimenta tanto da voler scoprire cosa avesse lasciato scritto il nonno in quel diario che aveva conservato con tanta cura. Non rimaneva che rivolgersi ad internet dove Tim trova il sito del Centro Studi Informatici La Grande Guerra; si mette in contatto con i responsabili Alessandro Gualtieri e Giovanni Dalle Fusine che, prima traducono il testo per la famiglia, e poi ne ricavano il libro “Dal Piave alla Prigionia: L’odissea del soldato Settimio Damiani”, edizioni Nordpress. “Sapevamo ben poco delle vicende belliche di papà – racconta la figlia Lee Damiani Malizia – Sapevamo che aveva fatto la guerra in Italia ma per noi l’Italia è un paese lontano, e la Grande Guerra una cosa da libri. Quando abbiamo letto la traduzione siamo rimasti sia affascinati sia terrificati da quello che papà aveva passato.” “Lui era già silenzioso di suo, un tipico padre italiano che non doveva mostrare emozioni.

Poi credo che non parlasse volentieri della guerra perché ciò che aveva visto e vissuto era  stato terribile – continua Lee – Le battaglie, i morti, la paura che traspariva dal suo scritto, ci ha portato alle lacrime più volte. Ad un certo punto scrive che si era riscaldato bruciando un foglietto di carta e spesso riporta le sepolture frettolose dei compagni. Credo che avesse bisogno di scrivere per sentirsi vivo, per allontanarsi dalla morte che lo circondava. La sua determinazione a raccontare la sua personale odissea era tale che durante la prigionia ha scambiato delle gallette per un mozzicone di matita nonostante le razioni fossero da fame. Non so se sarebbe contento di vedere pubblicato il suo diario ma credo che sia la giusta riconoscenza per tutti quelli che hanno combattuto e sofferto con lui. È giusto riportare alla memoria quale immane tragedia sia stata la Grande Guerra.” “Mi ricordo che da bambino mi raccontava della guerra ma non riuscivo a capire completamente cosa avesse sofferto – aggiunge Cesare, Chet per gli amici americani – Mi parlava di guerra, di fame, di battaglie, ma avveniva tutto in un paese lontanissimo per noi ragazzi. I suoi sembravano racconti di favole piuttosto che di vita vissuta. Mi chiedevo come poteva quell'uomo piegato nell’orto di casa essere stato un soldato, aver sparato e rischiato la vita; per noi ragazzi era qualcosa di impossibile.” “Tra i pochi episodi di guerra che ci ha raccontato ricordo l'episodio di quando lui ed i suoi compagni erano in fila per il rancio ed è caduta una bomba in mezzo ai fanti; mio padre si salvò ma molti restarono feriti o uccisi – ricorda Cesare – Altro ricordo, quello sì impresso nella memoria, è della sua prigionia nei campi. Deve aver sofferto tantissima fame perché quando mangiava spesso guardava il cibo, anche la più semplice delle pietanze, come si guarda qualcosa di irraggiungibile, lo pregustava con gli occhi e poi lo assaporava lentamente... quanta fame, diceva, quanta fame”.

 (testo letto nel corso della S.Messa del 23.11.2014

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